identità

IDENTITA’

Che valore o senso ha conoscersi, “identificarsi” stabilire chi/come si è?

Nel continuo dialogo che, consapevoli o meno, abbiamo con noi stessi, la relativa corrispondenza e stabilità del personaggio del nostro interlocutore, cioè noi stessi, è necessaria.

Quando un qualsiasi evento ha un effetto stressante, cioè produce ansia, in qualche modo incide sulla immagine personale.
Sembra che la “lesione identitaria” sia una conseguenza frequentemente legata a nuovi accadimenti. Spesso ho incontrato persone che dicevano di essere entrate in confusione a causa di improvvisi cambiamenti nella loro vita (non necessariamente negativi).

Qualunque cambiamento, che modifica il sistema nel quale viviamo, anche se risulta da un progetto per migliorare (cambiare lavoro, casa, partner, ecc), produce stress proprio perché modifica abitudini, logistiche, ed elementi di stabilità.
E, a volte, induce ansia e confusione.

La confusione è prodotta, ogni tanto, dal cambiamento del profilo identitario, in genere senza una comprensione di ciò da parte di chi è cambiato.

Infatti, è raro che una persona, soprattutto in una fascia di età intermedia fra l’adolescenza – nella quale si ricerca e si tenta di costruire una identità personale, per lo più partendo dal contrasto verso i valori “di prima” – e i 50/60 anni, si fermi a riflettere e capire dove è arrivata, “chi è”, adesso.
Quello che mi sembra succeda, è che procediamo dando per scontato che “sappiamo” chi siamo, e crediamo di essere in grado di prevedere la gamma delle nostre azioni e reazioni di fronte a molti eventi della vita.
Così come crediamo di sapere “chi sono” gli altri, cioè di aver profilato identità e azioni/reazioni dei nostri interlocutori abituali, ma non solo.

Tuttavia, i fatti ci dimostrano che questi sono né più né meno che autoinganni; cioè le azioni/reazioni degli altri ci lasciano spesso sorpresi, ma anche le nostre.
In altri termini. scopriamo di non conoscere non solo gli altri, ma anche noi stessi.
Queste scoperte generano confusione e paura: abbiamo fantasticato e costruito narrazioni[1] disattese dall’esperienza.

Un possibile pessimismo di fondo può generare non solo disorientamento, ma anche ansia, o paura vera e propria.

Le domande principali che generano queste emozioni sono:

che mi/gli/le succede?

Perché ho/ha reagito in quel modo?

Queste reazioni come le devo interpretare?

E così continuando.

Le reazioni di ansia, o paura, piuttosto che di “curiosità”, verso ciò che accade in modo inatteso, sono generate dal fatto che riteniamo di conoscere e controllare molte delle situazioni che ci circondano, tanto per fare degli esempi:

  • I nostri movimenti, e i nostri 5 sensi, come camminare, prendere e manipolare un oggetto, sentire con precisione rumori, parole, musica; vedere bene, da lontano e da vicino, avere una precisa sensazione tattile e olfattiva.
  • I nostri pensieri, le nostre idee
  • Le nostre emozioni

Se qualcosa di inatteso infrange quelle che riteniamo essere certezze, nasce l’inquietudine, la preoccupazione.

La mia idea è che esistono solo due certezze indubitabili: una è che moriremo (ognuno di noi, si spera in tarda o tardissima età e – parafrasando Moliére- sani).

L’altra è che dobbiamo accettare di vivere nell’incertezza…abbandonare l’uso di avverbi di tempo, come mai e sempre, ed anche l’uso, autoinfluenzante ed ingannatorio, di parecchie parole, come “eterno” (l’amore è eterno finché dura, titolo di un celebre film), “impossibile”, “certo”, “esatto”.

Cosa resta? Secondo me, moltissimo.

Se smettiamo, gradualmente, di fingere che viviamo in un sistema dove la maggior parte delle cose è sotto controllo, e di conseguenza tutto è statico, o stabile, ogni momento dopo adesso sarà qualcosa di nuovo, non necessariamente pericoloso e da evitare, ma magari interessante e utile da scoprire.

Ogni commento sarà, se non altro perché nuovo, per me interessante possibilmente utile, a chi scrive, ma anche ad altri lettori.

[1] Ogni evento, ogni situazione che si presenta alla attenzione individuale vengono valutati ed interpretati. La interpretazione è necessaria, in quanto senza di essa l’evento o l’oggetto non avrebbero significato per chi li percepisce. Anche la mera osservazione, ad esempio, di un tramonto, di un quadro, oltre colpire i recettori dell’occhio, ed essere decodificati dal cervello, richiedono la inclusione in categorie perché assumano un significato per chi osserva. In altri termini, non possiamo per così dire “appendere” un quadro, un paesaggio,  in una sorta di magazzino vuoto, e lasciarli dove sono stati appesi (lo stesso vale per ogni altra sollecitazione sensoriale che venga percepita, ma, paradossalmente, anche per quelle che non vengono consapevolmente percepite; quindi, in generale, cercheremo di dare un senso ad ogni segnale auditivo, tattile, olfattivo eccetera).

Per capire, dobbiamo cercare ed attribuire un significato, cioè dare una interpretazione.

Ma questa interpretazione non è, salvo casi particolari, totalmente oggettiva ed attendibile.

E’ parte di una storia, un racconto, cioè una narrazione, che ci consente di dare una spiegazione, che per il momento riteniamo valida e attendibile; lo stesso evento, in seguito, e con l’aggiunta di altre informazioni, potrebbe essere interpretato in modo radicalmente diverso, addirittura opposto al precedente.

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