Vincere, perdere
Ma anche no
ECCESSI 2
Continuando sul tema, vorrei segnalare altri eccessi spuntati non solo nei “talk” televisivi, ma, di conseguenza, nel parlare comune: avete fatto caso come le affermazioni e le negazioni di per sé brevi e sintetiche (peraltro credo nella maggior parte delle lingue più diffuse, oltre che nell’italiano scritto e parlato) cioè “si” e “no”, sono ormai precedute quasi sempre dall’avverbio ” assolutamente”?
Non solo, altrettanto spesso sono sostituite dall’avverbio (come direbbe Cetto La Qualunque, capace di ironizzare sull’eloquio che potrebbe sembrare forbito, inventandosi di sana pianta termini grotteschi, inesistenti e avulsi di significato, come “infattamente” “oppuremente”, e così via); ma l’uso del solo avverbio non fornisce all’ascoltatore una indicazione sul “che”. Non dimentichiamo il significato dell’avverbio da solo: un sinonimo è “completamente”, quindi chi ascolta non può sapere chi, cosa, quando. In altri termini sostituire un si o un no con “assolutamente” è scorretto dal punto di vista della comprensione del messaggio.
Continuo a sospettare tre cose:
1) questo ridondante uso di superlativi forse proviene dal lessico cinematografico nordamericano tradotto in italiano, copiato tout court (finalmente una citazione francese – non dimentichiamo che questa lingua è stata, in altri tempi, una lingua diffusa sul pianeta, e parlata dalle classi colte per esempio nella Russia dell’800-) dai presentatori (maschi e femmine) tv, e quindi più o meno consciamente imitato da chi guarda e ascolta le trasmissioni tv.
2) il “lessico” di ognuno di noi è influenzato sia da quello familiare (leggasi “Lessico familiare” di Natalia Ginzburg, indimenticabile romanzo del secolo scorso), che scolastico, dai gerghi appresi nei gruppi sociali frequentati nel tempo, dalle letture di romanzi, saggi, ed in breve da ogni possibile emittente di parole che incontriamo nella vita di relazione.
L’imitazione di un modello di lessico in qualche modo viene scelta, ma di rado queste scelte sono motivate dalla intenzione di farsi capire dal nostro interlocutore. Più spesso, anche se altrettanto spesso a nostra insaputa, ci si fa trascinare ad imitare un linguaggio che sembra più raffinato di quello fin’allora usato, ma non solo: se questo nuovo linguaggio assicura anche una più ampia occupazione del “territorio” della conversazione, ancora meglio.
Un paio di esempi: la retorica ed incessante domanda “capito?”, presente nella conversazione di persone che conoscete (e magari, se ci fate caso, anche nella vostra) consente a chi la pone di sollecitare l’attenzione dell’interlocutore, ha un significato potenzialmente svalutante (ti sollecito perché stenti a capire), ma come dice il proverbio, “chi domanda comanda”, e qui comando io…
“Capito?” può essere sostituito da “no?”. che è più breve da pronunciare, ma rappresenta comunque una interruzione interrogativa (retorica come la precedente).
3) L’eccesso a mio parere compromette la qualità della conversazione, perché l’uso costante di superlativi dopo un po’ satura la decodifica corretta dell’interlocutore, che non ne tiene conto; mi torna in mente un refrain, almeno a Roma, nei supermercati, venuto di moda non ho idea del motivo, una decina o più di anni fa, per cui si attirava l’attenzione del partner di acquisti non usando il suo nome proprio, ma “amore?”, poi rapidamente abbreviato in “amò?”. Per cui si sentiva un “amò”, e si vedevano dieci persone voltarsi dalla parte di chi esclamava…
Ecco, basta poco tempo, e non ci si fa più caso. Ma soprattutto, è il significato del termine che viene perso. E’ questo che sospetto capiti: la destrutturazione del significato; come sostituiremo una parola così fondamentale, ora che l’abbiamo sprecata?
Canzoni e psicologia: Hora da razào (l’ora della ragione)
Tempo fa, ho riportato in un articolo intitolato “a vida è arte do incontro” l’affermazione contenuta in una canzone di V. De Moraes; oggi voglio continuare , riportando il verso che, in apertura della canzone di cui al titolo, mi colpì una decina o più di anni fa, al primo ascolto: “se eu deixar de sofrer, como è que vai ser para mi acostumar?”, cioè “se smetto di soffrire, come farò ad abituarmi?”. Bè, dovetti riascoltare immediatamente la canzone, perché non mi sembrava possibile una provocazione simile, confermata in seguito dal verso “sofrer, tambem è merecimento…” (soffrire è anche un merito”).
Ecco, nella cultura cattolico/cristiana, la sofferenza è considerata da millenni un merito, che arriva al massimo quando si raggiunge il martirio.
In più, alla sofferenza ci si abitua, e può non solo diventare una compagnia, ma addirittura trasformarsi in un elemento identitario, in quanto, tanto o poco esibita, induce alla compassione chi in qualche modo la nota.
Per cui, può diventare un vantaggio. Freud parlava a suo tempo del “vantaggio secondario del sintomo”.
E allora, è davvero una volontà quella di liberarsi della sofferenza, come mi viene detto, da persone che si rivolgono a me con questo obiettivo? Non lo do per certo, proprio perché uno che “si tiene” per anni una ferita della psiche mi fa sospettare che possa averne dei vantaggi a tenersela; ad esempio, chi mi dice “io sono uno/a che non decide, tentenna ad ogni scelta o decisione da prendere, e poi mi rimprovero e mi svaluto ( cioè soffro), e vengo qui perché tu mi aiuti a superare questo blocco”.
E’ veramente determinato/a a superare questa sofferenza? O, inconsapevolmente, sta cercando pezze d’appoggio per “rassegnarsi e tenersela”? ( Neanche rivolgermi ad un professionista esperto mi è servito).
Perciò gli/le chiedo, scherzando: ma se smetti di soffrire, ce la farai ad abituarti?
Eccessi
Cosa può influenzare le persone, (non tutte, s’intende, ma provate a farci caso, anche per quel che riguarda il vostro personale lessico) e portarle all’uso spesso automatico, di superlativi?
A mio parere, ci influenza un processo di imitazione inconsapevole, che è “datato” nel tempo: tutti gli umani imparano ad esprimersi nella lingua dei propri genitori e parenti vari, sia nel versante delle parole che in quello dei segnali non verbali, che vengono perciò imitati. L’esigenza fondamentale di farsi capire, oltre che capire l’interlocutore, ma anche quella di farsi notare, dall’interlocutore, trova una strada meno difficile riproducendo suoni e gesti; che inoltre, nella fase di apprendimento infantile, vengono corretti se non congrui, e le correzioni portano il bambino ad apprendere velocemente, e ad esprimersi e capire in modo progressivamente più efficace.
Ad un certo punto, e in presenza di contesti comunicativi differenti (inclusa la lettura) ogni persona costruisce uno stile comunicativo piuttosto stabile. Ma che cambia, e può farlo radicalmente, (pensate alla necessità di comprendere ed esprimersi in una lingua diversa), in seguito a esigenze dissimili, incluse quelle “frivole”, ma non sempre frivole; imitare un accento diverso può avere, come motivazione consapevole, quella di essere graditi meglio in una regione o città diversa da quella dove si è nati.
Tuttavia, l’esigenza del gradimento altrui può condurre le persone a utilizzare lessici e cadenze ( e termini) che non solo demoliscono uno stile comunicativo antecedente, ma che compromettono il senso delle parole stesse e dell’atto comunicativo in generale.
Se qualcosa va bene, un tempo era confermato da un OK ( termine americano coniato per motivi telegrafici durante la guerra di secessione, che letto non in acronimo è zero killed, cioè non ci sono stati morti, in quello scontro armato). Breve, non in lingua italiana, ma ormai diffuso in tutto il pianeta, quindi significativamente efficace (stavo quasi per scrivere perfetto).
Ma rispondere o affermare “ perfetto!” invece che va bene o ok , è introdurre un termine superlativo che fra l’altro indicherebbe qualcosa che non è di questo mondo. Tuttavia, questi superlativi costellano il linguaggio dei media, e quindi anche, spesso, il nostro.
Il senso delle parole o della comunicazione ne beneficia? Personalmente, non credo, trovo che esprima un entusiasmo posticcio, a cui peraltro nessuno crede davvero; sono forme di ridondanza (che non è un modo stravagante di definire la danza del ventre) che ingombrano come tali la precisione del significato.
E’ così difficile privarsene?
Deixa a vida te acontecer
La canzone, piuttosto buffa e divertente, parla di un “malandro” ( facilmente comprensibile in italiano, se lo scriviamo al diminutivo) che compie un passo falso (il titolo della canzone è “Golpe errado”), e ne subirà le conseguenze (vedrà il sole a quadretti – vai ver nacer quadrado o amanhecer-, metafora simile alla nostra per indicare il carcere). La storia che viene raccontata al malandro, nell’obiettivo di fargli cambiare comportamento, mette in luce diversi fatti che peraltro fanno parte della vita comune, non specificamente di quella del “soggetto”: una volta si vince, una si perde, c’è sempre qualcuno più esperto di te, anche tu che sei malandro devi trovare di quando in quando un po’ di tempo per vivere, è assurdo pensare che puoi controllare tutto (considerazione mia), lascia che la vita ti accada.
La vita ci accade, nonostante quello che facciamo per evitarlo. Lo evitiamo credo io. perché vogliamo evitare le sorprese, in quanto la maggior parte di esse, nella nostra memoria, sono brutte sorprese.
Ma è così veramente? Parafrasando la legge di Murphy ( se qualcosa di negativo PUO’ accadere, allora senz’altro accadrà) vorrei sapere quanti di noi (io che scrivo e voi che leggete) si alzano la mattina dicendo a sé stessi: “vediamo quante belle sorprese mi riserverà la giornata”. O quante brutte sorprese…
Se non le cerchiamo, le belle intendo, è possibile che neppure le notiamo. Mentre quelle brutte non solo le notiamo, ma le ricordiamo, e, definita una unità temporale, non è difficile che sintetizziamo con ” che giornata, settimana, mese, anno di merda!”
Questo fatto di ricordare soprattutto le brutte sorprese, può far nascere un (altro) pregiudizio; autodefinirci sfigati/e e con questo trasformare la casualità in necessità. In altri termini, raccontarci che le brutte sorprese, la sfortuna, è per noi un destino, non un fatto casuale.
Se questo accade, il nostro stato di allerta verso la sfiga aumenterà, e di conseguenza si abbasserà la capacità di individuare ciò che di positivo si manifesta nell’arco della nostra giornata.
Non solo: metteremo in atto quella che viene definita tecnicamente la “profezia che si autoavvera”. Che funziona anche a livello collettivo.
Un esempio; supponiamo che domani nella prima pagina dei quotidiani più diffusi compaia un articolo in cui si annuncia che nel canale di Suez una nave in transito si è arenata, impedendo il passaggio, cioè in pratica quasi bloccando il traffico. Di conseguenza si prevede ( o si profetizza) una probabile carenza di carburante nei prossimi giorni.
Un grande numero di automobilisti si precipiterà a fare il pieno di benzina, ed in effetti, in poche ore, si avvererà il fatto descritto nei quotidiani.
Il giorno successivo, gli stessi giornali daranno notizia del fatto che la nave arenata nel canale fu disincagliata in tempi rapidissimi, ed il traffico marittimo ripristinato, quindi nessun pericolo di carenza di carburante.
Come, nessun pericolo? Ma ieri, il carburante nei distributori era esaurito, come sanno quei tanti automobilisti che, magari dopo ore di fila, se ne sono tornati a casa col serbatoio ancora più vuoto di quando erano partiti.
In altre parole, chi “crede” ad una profezia, spesso riesce a farla avverare. Se per esempio x teme che il suo partner si stia raffreddando nei suoi confronti, e tempesta di telefonate il partner di cui sopra, chiedendo: “ma, mi ami? Ma quanto? Tanto quanto? “etc etc, non è difficile che ad un certo punto l’interlocutore si saturi e chiuda bruscamente la telefonata.
Le nostre “profezie”, o paure, possiamo riuscire a farle avverare credendole vere e attivando comportamenti ed atteggiamenti che realizzano la profezia.
Allora, che fare per evitare questi automatismi, queste etichette che poi spesso non solo non proteggono da, ma realizzano proprio ciò che vorremmo non avvenisse? In attesa di ipotesi, commenti eccetera, cordialmente
Pregiudizi
Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce (Blaise Pascal, pensieri)
Stamattina mi è tornata in mente una canzone cantata dal suddetto ( Aos pes da cruz), in cui inopinatamente compare la frase ” o coraçào tem razoes que a propria razào disconheçe”, cioè il titolo di questo articolo ( ma molto più suggestivo e melodico di quanto almeno a me appaia la traduzione italiana, o anche l’originale francese).
Appunto, pensavo ad una esperienza ed un incontro recente con una persona che si è innamorata, di nuovo, ma non si tratta di una persona giovane e quindi “innocente e magari poco esperta nelle cose d’amore”, bensì di una persona d’età ed esperienza.
E di chi? di un’altra, anch’essa di età ed esperienza, ma di radici e tradizioni culturali ed esperienze amorose vissute con stili e manifestazioni e simboli totalmente diversi, non convergenti, anzi, quasi considerate estranee alle proprie.
Ma, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce, e si è innamorata lo stesso.
L‘innamoramento parte, secondo me, da esigenze prevalentemente narcisistiche: in altre parole, ci innamoriamo non dell’altra persona, ma della descrizione che l’altra persona fa di noi; la narrazione che l’altro ci fa di noi ci trascina, colpisce, entusiasma, commuove, per cui non riusciamo a farne a meno, e sentiamo l’esigenza di rivedere quella persona, di starle vicino e di continuare a farci raccontare di quel “me stesso” in quel modo, con quelle parole, quei gesti, quei toni.
Cosa c’entra questo con la ragione? Intendo, con la logica, con l’esperienza di vita, con la storia che abbiamo? A volte tanto, a volte poco o niente; sta di fatto che le ragioni del cuore, spesso ignorate, premono.
Diventano necessità che emergono quando incontriamo un partner che “ci narra di noi in un certo modo”. Ne abbiamo paura, spesso, ma la necessità ci porta ad andare oltre, e perciò accettiamo il rischio di soffrire ed essere delusi.
Chiudo citando i versi di una canzone più recente (O amor quando acontece – l’amore quando succede- di Joào Bosco) che come capita nelle canzoni o nelle poesie, riesce a sintetizzare l’esperienza:
“O amor mi pegou, p’ra valer… passa o tempo, a marè, vendaval sobre o mar azul… quantas vezes chorei, quase desesperei, e jurei nunca mais seus carinhos…O amor quando acontece, a gente esquece logo que sofreu um dia, ilusào…mas quem mandou chegar taò perto se era sempre um outro ingano…” (L’amore mi ha preso per davvero…passa il tempo, la marea, è una tempesta sull’azzurro mare…quante volte ho pianto, mi son quasi disperato, ho giurato mai più le sue carezze…Quando l’amore ti prende ti dimentichi in fretta di quello che hai sofferto, illusione…chi te l’ha fatto fare ad avvicinarti così,sapevi che sarebbe stato un altro inganno…)
A vida è arte do incontro, embora haja tanto desencontro nessa vida
La vita è l’arte dell’incontro, nonostante abbiamo tanti disincontri in questa vita…. parole che fanno pensare, contenute nella canzone “Samba da bençào ” di Vinicius de Moraes, uno dei maggiori musicisti e poeti del Brasile del secolo scorso, noto in tutto il pianeta.
Vale la pena di sentirla, [...]