La durezza della perdita

I sogni, quando li ricordiamo, talvolta generano un vissuto di interpretazione della realtà attuale, personale in genere, ma anche debordante su situazioni e fenomeni più ampi, per esempio gli odierni conflitti, e/o altri eventi di rilevanza generale.Un sogno di ieri notte mi ha riportato alla memoria una antica e delicata canzone di Charles Trenet: “Que reste-t- il de nos amours” ( Cosa resta dei nostri amori)Questa canzone, reinterpretata qualche decennio fa da Joao Gilberto, è , a parte la musica, particolarmente poetica e delicata nelle parole, che aggiungo qui avanti, assieme alla mia traduzione:Que reste-t-il de nos amours Cosa rimane dei nostri amoriQue reste-t-il de ces beaux jours Cosa rimane di quei bei giorniUne foto, vieille foto, de ma jeunesse Una foto, vecchia foto della mia giovinezzaQue reste-t-il des billet doux Cosa resta dei bigliettini dolciDes mois d’Avril, des rendez-vous Dei mesi d’Aprile, degli appuntamentiUn souvenir, que me pursuit sans cesse Un ricordo, che continua a seguirmi Bonheur fané, cheveux au vent Felicità sbiadita, capelli al ventoBaisers volés, reves mouvants Baci rubati, sogni che scorronoQue reste-t-il de tout cela, dites-le moi? Cosa resta di tutto questo, ditemelo?Un p’tit village, un vieux clocher Un piccolo villaggio, un vecchio campanileUn paysage, si bien caché Un paesaggio così ben nascostoEt dans une nuage, le cher visage Ed in una nuvola rivedo il caro visoDe mon passé Del mio passato I sogni, le vecchie canzoni, la loro poesia, gli amori passati….Per me, le parole di questa canzone rivelano una necessità; la necessità della perdita, ( tutto si perde, ogni avere è temporaneo) e la funzione del ricordo per ridurre per quanto possibile la durezza della perdita.Il ricordo, almeno in parte, rievoca ciò che si è perso. Di più: se la rievocazione sceglie artisticamente, liricamente, i diversi frammenti del ricordo, ne sublima gli effetti.Come nella canzone, il rimpianto è dolce, sostenibile, non è più tragico.A volte, una canzone, riesce ad allontanare la tragedia, proprio canalizzando le emozioni sulla dolcezza. E’ una alternativa romantica alla violenza.

Vincere, perdere

E’ un periodo storico nel quale sembrano riemergere termini, sceneggiature, aspetti concettuali e sociopolitici che andavano per la maggiore circa 100 anni fa. Ne cito qualcuno: patria, patriarcato, saluto a braccio teso, populismo; vincere, e vinceremo (verso di una celebre canzone a ritmo di marcia militare, ma ancor prima, affermazione del capo del governo di allora, in uno dei discorsi pronunciati dopo l’entrata in guerra). D’altro canto, il governo attuale è orientato, e costituito, da eredi di un tempo e di un partito che sempre un centinaio circa d’anni fa, “rivoluzionò” lo stato italiano , guidato da un personaggio che aveva fondato un partito ed ottenuto di esser nominato capo del governo di allora.Sono trascorsi più di cento anni, ma il fascino, il ricordo di un’Italia che tramite quegli schemi, quelle parole d’ordine, quegli ideali, assunse un’immagine internazionale che da millenni non aveva, hanno continuato a sopravvivere, nonostante la dittatura, l’entrata in guerra, i milioni di morti, la distruzione, la guerra civile, le leggi razziali, il genocidio di milioni di “diversi”.E perciò, queste sopravvivenze ormai così antiche, ( perché nel frattempo il pianeta Terra ha superato gli 8 miliardi di umani, che hanno scavalcato i primi 20 anni del 3° millennio, elevato a potenza le possibilità di produrre cibo, materie prime, sono andati sulla Luna, sono da anni su Marte, per ora solo con strumenti, hanno esplorato con sonde più o meno tutti i pianeti del sistema Solare, hanno portato avanti la fisica, la chimica, la biologia, la medicina, l’astronomia, insomma tutte le scienze, “dure” e meno dure; hanno fatto evolvere l’informatica al punto che esiste già una Intelligenza Artificiale di cui non si possono prevedere gli sviluppi. L’uomo è arrivato a dover prendere atto che i danni all’ecologia planetaria prodotti dall’uomo stesso stanno mettendo in serio pericolo il clima, e di conseguenza l’abitabilità del pianeta), sono sorprendenti, ma comunque sono. Come se questi ultimi 100 anni abbiano lasciate più o meno intatte idee, miti, ideologie, che sarebbero dovute scomparire completamente, in quanto i fatti storici, l’evoluzione delle scienze, ne hanno dimostrato indubitabilmente l’erroneità, le terribili conseguenze per chi vi ha a suo tempo aderito e creduto. Invece, esistono e si espandono le “fedi” religiose, che continuano a far emergere radicalizzazioni e rievocano le certezze finte del “Gott mit uns” ( “Dio è con noi” degli eserciti nazisti, ma non certo coniate a quei tempi, se mai copiate nella storia più arcaica, antecedente ai monoteismi), continuano i disconoscimenti delle scienze ( ancora sopravvivono gruppi che si dicono certi che la terra è piatta, o cava, Copernico è disconosciuto da altri gruppi. Gli avanzamenti della antropologia, della biologia, della chimica, della medicina sono negati e combattuti da gruppi che non solo respingono ogni prova per quanto inconfutabile, ma continuano a ribadire che l’astrologia -non l’astronomia- è vera scienza, così come il creazionismo, e quant’altro di assurdo – del resto, un noto apologeta cristiano del III° secolo d.c. affermò e scrisse (credo quia absurdum”) che proprio in quanto era assurdo lui credeva nel Vangelo cristiano…- ci si possa inventare, e ci si sia da millenni inventato). Insomma, come scritto più sopra, rimane intatta per una quota elevatissima di componenti della specie umana la scelta di farsi continuare a trascinare dal fascino dell’irrazionale, dai miti, dai riti “iniziatici” che risalgono ad un tempo in cui non erano ancora nate le scienze sperimentali, il metodo scientifico, e l’unica risorsa per dare un senso all’incomprensibile era inventarsi esseri superiori, che avevano superpoteri di tutti i generi, e che se l’uomo li adorava opportunamente, e mostrava una totale sottomissione, ( a proposito, il significato del termine Islam è proprio “sottomissione”) a volte erano capricciosamente generosi nei confronti dell’uomo, che però non doveva illudersi più di tanto, perché appunto guai a lui se perdeva il “timor di – o del- dio” . La perfidia spaventosa del dio poli o mono teista era una caratteristica talmente umana che portava e porta a pensare che sia avvenuto il contrario di ciò che più o meno tutte le religioni affermano; non è l’uomo una creatura di o del dio, ma è il dio una creazione o meglio una invenzione dell’uomo. Vincere; perdere.

FEROCIA

Alcuni sinonimi: bestialità, brutalità, atrocità, malvagità…La radice latina , che peraltro ha un termine uguale (ferocia), è dal termine “fera”, cioè fiera, cioè bestia, da cui il suddetto bestialità.Ma la ferocia, di cui abbiamo pieni gli occhi e le orecchie, con due guerre in atto, con una recentissima feroce uccisione di una ragazza, non è una modalità d’azione propria degli animali. Nessun animale in verità è feroce. Le motivazioni della ferocia non appartengono agli animali, a parte una specie: quella umana.E come mai la specie umana, da sempre, almeno da quando ne siamo consapevoli attraverso i miti originari, la storia antica e recente, mostra la propria ferocia? Ma soprattutto, la agisce e continua ad agirla?Parafrasando le idee di due relativamente recenti personaggi del pensiero, secondo Nietzsche, perché l’uomo ha una “volontà di potenza”. In altri termini, vuole prevalere sugli altri, in una accezione che può essere avvicinata alla esigenza territoriale degli animali, non solo predatori. Le risorse disponibili , quelle sono, e dunque se desidero sopravvivere, devo tutelare le risorse, e difenderle.Difendere però non implica necessariamente la ferocia, la eliminazione crudele di chi tenta di infiltrarsi nel territorio. Questo vale per le “fiere”, naturalmente. Non per la specie umana.La specie umana ha purtroppo ben altre esigenze ed impulsi difficilmente frenabili, in particolare perché la cultura, da millenni, includendo in essa le religioni, in particolare quelle monoteiste, (escluso il buddismo, che però che io sappia è un modello di filosofia piuttosto che una religione) ha richiesto e prescritto che il potere l’avesse il più forte, e chi non si adattava, veniva più o meno ferocemente estromesso.Un altro personaggio della cultura del ‘900, Eric Fromm, ha in un suo saggio messo a fuoco una tipica scelta di vita degli esseri umani. Il titolo del saggio è “Essere o avere”.Chi lo ha letto, può probabilmente trovare spunti per comprendere come e quanto la modalità dell'”avere” , del possesso, del ” se possiedo, se mi assicuro la proprietà di cose e persone”, finga di garantire la certezza di “essere”.Il possesso conferisce l’identità di un vincente, si è solo se si ha.E per possedere, o mantenere e ampliare il possesso, la specie umana è disposta, ormai culturalmente, a mettere in atto qualunque azione, anche la più feroce.Un dubbio che potrebbe venire a molti, nel leggere questa sintesi, è “ma allora che fine fanno la solidarietà verso gli altri, il prendersi cura di altri, i tanti casi di sacrificio della propria vita per tentare di salvare altri, il rinunciare a oggetti, tempo, affetti, progetti, per il bene di altri? In sintesi, che ne è di tutte le azioni altruistiche che possiamo osservare, di cui veniamo a sapere, o perfino le personali rinunce?Certo, dubbio lecito. In fine , sembra che la specie umana possa esprimere sia suprema bontà, che suprema ferocia.Ma la ferocia è il titolo di queste considerazioni, e voglio aggiungere un ultima annotazione al riguardo:le persone che si “dedicano” al versante feroce del proprio agire, non sono in preda alla follia, non stanno reagendo ad un pericolo estremo che concerne il mantenimento del possesso (di risorse, di spazi, di sentimenti, e così via). Dal mio punto di vista, sono implicate in una dipendenza, in qualche modo simile a quella di un eroinomane.Sanno, o credono di sapere , che di quel qualcosa o qualcuno non possono fare a meno, e se quel qualcosa o qualcuno dovessero mancare, è preferibile morire, o uccidere. Quando decidono di uccidere, lo fanno con tutta la ferocia che sono in grado di mettere in atto.Il tema della propria autonomia, autosufficienza, in -dipendenza non viene mai alla loro attenzione. La autonomia personale da qualcosa o qualcuno; se non sono sufficientemente autonomo, non avrò la possibilità né di sapere chi sono, né di seguire un progetto. Tutto quello che sarò in grado di fare sarà la continua ricerca di cose o persone che sostengano la mia dipendenza, la mia nascosta sudditanza, la mia mancanza di libertà.

Ma anche no

Neologismi? Criteri di introduzione di nuove o meno parole nella conversazione comune e ipotesi sulle motivazioni di chi ne fa uso o le inventaNella lingua italiana attuale, ma certamente in ogni lingua parlata nel mondo, si assiste ad un continuo dinamismo nell’introduzione di nuovi lemmi, nell’obsolescenza di altri, nella sostituzione di parole con altre di simile significato, e però diverse; la stessa cosa avviene per le frasi, che vengono trasformate, ma sostituiscono frasi equivalenti e “meno attuali”.Un esempio: hey, sta per ciao ( troppo antico, come sappiamo il termine è derivato dalla frase “schiavo vostro” in voga dal dialetto veneziano del ‘700, e sintetizzata nel “ciao”) mentre hey è più internazionale, ma forse contiene altre motivazioni d’uso.E veniamo a queste ultime.Il linguaggio conversativo, includendo anche il non verbale, non è solo lo strumento per capirsi gli uni con gli altri; ogni manifestazione linguistica, o più largamente simbolico/ raffigurativa, (quadri, foto, filmati, musica, etc) ha sempre una (almeno) intenzionalità ulteriore, anche se quasi sempre all’insaputa di chi la mette in atto: esercitare un processo di influenza su chi ascolta, vede, partecipa.In questo stesso momento in cui leggi quello che scrivo, la mia intenzione non è solo quella di “informarti”, o “raccontarti” quello che continuamente avviene nel processo di comunicazione, ma anche quella di convincerti, trascinarti verso la mia personale visione delle motivazioni sottostanti all’uso di modi di dire che hai cominciato ad applicare, o con cui hai sostituito parole o frasi che facevano parte del tuo lessico, magari da anni o decenni.C’è un altra conseguenza alla trasformazione del linguaggio: il nostro pensare è fatto principalmente di immagini, ma nel raccontare o raccontarci vicende, sensazioni, idee, opinioni e quant’altro, noi usiamo parole.Se usiamo termini e frasi differenti, anche il nostro pensiero è differente.Il lessico è collegato, come altri ambiti, alla moda; se decido di usare scarpe con tacco basso, o con tacco “12”, ho scelto in base all’impulso che mi viene non necessariamente dalla ricerca della comodità nel camminare, ma anche da altre ragioni, che possono farmi decidere di accettare il rischio di rompermi una gamba, piuttosto che restare 12 cm più basso…Concludo: le motivazioni della trasformazione del lessico ( suggerisco di leggere l’indimenticabile ed umoristico romanzo di Natalia Ginzburg “Lessico familiare”, che di questo tratta, cioè di quanto l’uso di un determinato modo di parlare influenzi la visione delle piccole e grandi vicende della vita) sono determinate, a parer mio non solo e non tanto da motivazioni di migliore chiarezza espositiva, volte a facilitare nell’ascoltatore una comprensione più efficace; ma da una ricerca egoistica di maggiore spettacolarità, di migliore adesione ai dettami della moda linguistica, o dell’ultimo “behaviour influencer”.

ECCESSI 2

Parafrasando il famoso film “Alien”, mi verrebbe da aggiungere al titolo “la vendetta”, ma sarebbe, pur in modo poco serio, un eccesso…
Continuando sul tema, vorrei segnalare altri eccessi spuntati non solo nei “talk” televisivi, ma, di conseguenza, nel parlare comune: avete fatto caso come le affermazioni e le negazioni di per sé brevi e sintetiche (peraltro credo nella maggior parte delle lingue più diffuse, oltre che nell’italiano scritto e parlato) cioè “si” e “no”, sono ormai precedute quasi sempre dall’avverbio ” assolutamente”?
Non solo, altrettanto spesso sono sostituite dall’avverbio (come direbbe Cetto La Qualunque, capace di ironizzare sull’eloquio che potrebbe sembrare forbito, inventandosi di sana pianta termini grotteschi, inesistenti e avulsi di significato, come “infattamente” “oppuremente”, e così via); ma l’uso del solo avverbio non fornisce all’ascoltatore una indicazione sul “che”. Non dimentichiamo il significato dell’avverbio da solo: un sinonimo è “completamente”, quindi chi ascolta non può sapere chi, cosa, quando. In altri termini sostituire un si o un no con “assolutamente” è scorretto dal punto di vista della comprensione del messaggio.

Continuo a sospettare tre cose:
1) questo ridondante uso di superlativi forse proviene dal lessico cinematografico nordamericano tradotto in italiano, copiato tout court (finalmente una citazione francese – non dimentichiamo che questa lingua è stata, in altri tempi, una lingua diffusa sul pianeta, e parlata dalle classi colte per esempio nella Russia dell’800-) dai presentatori (maschi e femmine) tv, e quindi più o meno consciamente imitato da chi guarda e ascolta le trasmissioni tv.

2) il “lessico” di ognuno di noi è influenzato sia da quello familiare (leggasi “Lessico familiare” di Natalia Ginzburg, indimenticabile romanzo del secolo scorso), che scolastico, dai gerghi appresi nei gruppi sociali frequentati nel tempo, dalle letture di romanzi, saggi, ed in breve da ogni possibile emittente di parole che incontriamo nella vita di relazione.

L’imitazione di un modello di lessico in qualche modo viene scelta, ma di rado queste scelte sono motivate dalla intenzione di farsi capire dal nostro interlocutore. Più spesso, anche se altrettanto spesso a nostra insaputa, ci si fa trascinare ad imitare un linguaggio che sembra più raffinato di quello fin’allora usato, ma non solo: se questo nuovo linguaggio assicura anche una più ampia occupazione del “territorio” della conversazione, ancora meglio.

Un paio di esempi: la retorica ed incessante domanda “capito?”, presente nella conversazione di persone che conoscete (e magari, se ci fate caso, anche nella vostra) consente a chi la pone di sollecitare l’attenzione dell’interlocutore, ha un significato potenzialmente svalutante (ti sollecito perché stenti a capire), ma come dice il proverbio, “chi domanda comanda”, e qui comando io…
“Capito?” può essere sostituito da “no?”. che è più breve da pronunciare, ma rappresenta comunque una interruzione interrogativa (retorica come la precedente).

3) L’eccesso a mio parere compromette la qualità della conversazione, perché l’uso costante di superlativi dopo un po’ satura la decodifica corretta dell’interlocutore, che non ne tiene conto; mi torna in mente un refrain, almeno a Roma, nei supermercati, venuto di moda non ho idea del motivo, una decina o più di anni fa, per cui si attirava l’attenzione del partner di acquisti non usando il suo nome proprio, ma “amore?”, poi rapidamente abbreviato in “amò?”. Per cui si sentiva un “amò”, e si vedevano dieci persone voltarsi dalla parte di chi esclamava…

Ecco, basta poco tempo, e non ci si fa più caso. Ma soprattutto, è il significato del termine che viene perso. E’ questo che sospetto capiti: la destrutturazione del significato; come sostituiremo una parola così fondamentale, ora che l’abbiamo sprecata?

Canzoni e psicologia: Hora da razào (l’ora della ragione)

Sappiamo che alcune canzoni, alcuni autori, presentano a volte straordinarie sintesi su temi non solo musicali, ma anche filosofici e psicologici. Parafrasando Galileo, non è poi così raro scoprire che alcune canzonette possono trattare di “massimi sistemi”.
Tempo fa, ho riportato in un articolo intitolato “a vida è arte do incontro” l’affermazione contenuta in una canzone di V. De Moraes; oggi voglio continuare , riportando il verso che, in apertura della canzone di cui al titolo, mi colpì una decina o più di anni fa, al primo ascolto: “se eu deixar de sofrer, como è que vai ser para mi acostumar?”, cioè “se smetto di soffrire, come farò ad abituarmi?”. Bè, dovetti riascoltare immediatamente la canzone, perché non mi sembrava possibile una provocazione simile, confermata in seguito dal verso “sofrer, tambem è merecimento…” (soffrire è anche un merito”).
Ecco, nella cultura cattolico/cristiana, la sofferenza è considerata da millenni un merito, che arriva al massimo quando si raggiunge il martirio.
In più, alla sofferenza ci si abitua, e può non solo diventare una compagnia, ma addirittura trasformarsi in un elemento identitario, in quanto, tanto o poco esibita, induce alla compassione chi in qualche modo la nota.
Per cui, può diventare un vantaggio. Freud parlava a suo tempo del “vantaggio secondario del sintomo”.
E allora, è davvero una volontà quella di liberarsi della sofferenza, come mi viene detto, da persone che si rivolgono a me con questo obiettivo? Non lo do per certo, proprio perché uno che “si tiene” per anni una ferita della psiche mi fa sospettare che possa averne dei vantaggi a tenersela; ad esempio, chi mi dice “io sono uno/a che non decide, tentenna ad ogni scelta o decisione da prendere, e poi mi rimprovero e mi svaluto ( cioè soffro), e vengo qui perché tu mi aiuti a superare questo blocco”.
E’ veramente determinato/a a superare questa sofferenza? O, inconsapevolmente, sta cercando pezze d’appoggio per “rassegnarsi e tenersela”? ( Neanche rivolgermi ad un professionista esperto mi è servito).
Perciò gli/le chiedo, scherzando: ma se smetti di soffrire, ce la farai ad abituarti?

Eccessi

Avete notato che nelle trasformazioni del modo di parlare -e scrivere- “comune”, nei dialoghi, in particolare nelle trasmissioni televisive, ma anche nei films, compaiono negli ultimi anni sempre più spesso termini superlativi, come “fantastico”, “magnifico”, “assolutamente”, “perfetto”, “andrà tutto bene” ( ad esempio, sui balconi di molte abitazioni, all’inizio della pandemia, l’ultima frase era scritta su un drappo esposto alla vista)?
Cosa può influenzare le persone, (non tutte, s’intende, ma provate a farci caso, anche per quel che riguarda il vostro personale lessico) e portarle all’uso spesso automatico, di superlativi?

A mio parere, ci influenza un processo di imitazione inconsapevole, che è “datato” nel tempo: tutti gli umani imparano ad esprimersi nella lingua dei propri genitori e parenti vari, sia nel versante delle parole che in quello dei segnali non verbali, che vengono perciò imitati. L’esigenza fondamentale di farsi capire, oltre che capire l’interlocutore, ma anche quella di farsi notare, dall’interlocutore, trova una strada meno difficile riproducendo suoni e gesti; che inoltre, nella fase di apprendimento infantile, vengono corretti se non congrui, e le correzioni portano il bambino ad apprendere velocemente, e ad esprimersi e capire in modo progressivamente più efficace.

Ad un certo punto, e in presenza di contesti comunicativi differenti (inclusa la lettura) ogni persona costruisce uno stile comunicativo piuttosto stabile. Ma che cambia, e può farlo radicalmente, (pensate alla necessità di comprendere ed esprimersi in una lingua diversa), in seguito a esigenze dissimili, incluse quelle “frivole”, ma non sempre frivole; imitare un accento diverso può avere, come motivazione consapevole, quella di essere graditi meglio in una regione o città diversa da quella dove si è nati.

Tuttavia, l’esigenza del gradimento altrui può condurre le persone a utilizzare lessici e cadenze ( e termini) che non solo demoliscono uno stile comunicativo antecedente, ma che compromettono il senso delle parole stesse e dell’atto comunicativo in generale.

Se qualcosa va bene, un tempo era confermato da un OK ( termine americano coniato per motivi telegrafici durante la guerra di secessione, che letto non in acronimo è zero killed, cioè non ci sono stati morti, in quello scontro armato). Breve, non in lingua italiana, ma ormai diffuso in tutto il pianeta, quindi significativamente efficace (stavo quasi per scrivere perfetto).

Ma rispondere o affermare “ perfetto!” invece che va bene o ok , è introdurre un termine superlativo che fra l’altro indicherebbe qualcosa che non è di questo mondo. Tuttavia, questi superlativi costellano il linguaggio dei media, e quindi anche, spesso, il nostro.

Il senso delle parole o della comunicazione ne beneficia? Personalmente, non credo, trovo che esprima un entusiasmo posticcio, a cui peraltro nessuno crede davvero; sono forme di ridondanza (che non è un modo stravagante di definire la danza del ventre) che ingombrano come tali la precisione del significato.
E’ così difficile privarsene?

Deixa a vida te acontecer

“Lascia che la vita ti accada”, è il verso di una vecchia canzone di Vinicus de Moraes, già altrove descritto – poeta e musicista brasiliano di straordinaria importanza artistica, noto in tutto il mondo nello scorso secolo -.
La canzone, piuttosto buffa e divertente, parla di un “malandro” ( facilmente comprensibile in italiano, se lo scriviamo al diminutivo) che compie un passo falso (il titolo della canzone è “Golpe errado”), e ne subirà le conseguenze (vedrà il sole a quadretti – vai ver nacer quadrado o amanhecer-, metafora simile alla nostra per indicare il carcere). La storia che viene raccontata al malandro, nell’obiettivo di fargli cambiare comportamento, mette in luce diversi fatti che peraltro fanno parte della vita comune, non specificamente di quella del “soggetto”: una volta si vince, una si perde, c’è sempre qualcuno più esperto di te, anche tu che sei malandro devi trovare di quando in quando un po’ di tempo per vivere, è assurdo pensare che puoi controllare tutto (considerazione mia), lascia che la vita ti accada.

La vita ci accade, nonostante quello che facciamo per evitarlo. Lo evitiamo credo io. perché vogliamo evitare le sorprese, in quanto la maggior parte di esse, nella nostra memoria, sono brutte sorprese.

Ma è così veramente? Parafrasando la legge di Murphy ( se qualcosa di negativo PUO’ accadere, allora senz’altro accadrà) vorrei sapere quanti di noi (io che scrivo e voi che leggete) si alzano la mattina dicendo a sé stessi: “vediamo quante belle sorprese mi riserverà la giornata”. O quante brutte sorprese…
Se non le cerchiamo, le belle intendo, è possibile che neppure le notiamo. Mentre quelle brutte non solo le notiamo, ma le ricordiamo, e, definita una unità temporale, non è difficile che sintetizziamo con ” che giornata, settimana, mese, anno di merda!”

Questo fatto di ricordare soprattutto le brutte sorprese, può far nascere un (altro) pregiudizio; autodefinirci sfigati/e e con questo trasformare la casualità in necessità. In altri termini, raccontarci che le brutte sorprese, la sfortuna, è per noi un destino, non un fatto casuale.
Se questo accade, il nostro stato di allerta verso la sfiga aumenterà, e di conseguenza si abbasserà la capacità di individuare ciò che di positivo si manifesta nell’arco della nostra giornata.

Non solo: metteremo in atto quella che viene definita tecnicamente la “profezia che si autoavvera”. Che funziona anche a livello collettivo.
Un esempio; supponiamo che domani nella prima pagina dei quotidiani più diffusi compaia un articolo in cui si annuncia che nel canale di Suez una nave in transito si è arenata, impedendo il passaggio, cioè in pratica quasi bloccando il traffico. Di conseguenza si prevede ( o si profetizza) una probabile carenza di carburante nei prossimi giorni.
Un grande numero di automobilisti si precipiterà a fare il pieno di benzina, ed in effetti, in poche ore, si avvererà il fatto descritto nei quotidiani.

Il giorno successivo, gli stessi giornali daranno notizia del fatto che la nave arenata nel canale fu disincagliata in tempi rapidissimi, ed il traffico marittimo ripristinato, quindi nessun pericolo di carenza di carburante.
Come, nessun pericolo? Ma ieri, il carburante nei distributori era esaurito, come sanno quei tanti automobilisti che, magari dopo ore di fila, se ne sono tornati a casa col serbatoio ancora più vuoto di quando erano partiti.

In altre parole, chi “crede” ad una profezia, spesso riesce a farla avverare. Se per esempio x teme che il suo partner si stia raffreddando nei suoi confronti, e tempesta di telefonate il partner di cui sopra, chiedendo: “ma, mi ami? Ma quanto? Tanto quanto? “etc etc, non è difficile che ad un certo punto l’interlocutore si saturi e chiuda bruscamente la telefonata.
Le nostre “profezie”, o paure, possiamo riuscire a farle avverare credendole vere e attivando comportamenti ed atteggiamenti che realizzano la profezia.

Allora, che fare per evitare questi automatismi, queste etichette che poi spesso non solo non proteggono da, ma realizzano proprio ciò che vorremmo non avvenisse? In attesa di ipotesi, commenti eccetera, cordialmente

Pregiudizi

Il “pregiudizio”, il suo uso, porta ad errori cognitivi. Chi ha (chi non ne ha?) pregiudizi spesso commette degli errori di valutazione su situazioni, persone, esseri viventi e così via. Un esempio: se mi convinco che il proverbio “can che abbaia non morde” (inteso sia verso la specie canina che come metafora) sia valido, potrei essere morso da un cane che abbaia. E tuttavia, nel dare un giudizio su una situazione, persona, etc non è affatto raro che ci facciamo trascinare da pregiudizi.Il pregiudizio è una comodità, ci dà sollievo in un evento nuovo, proprio perché possiamo illuderci che siamo sufficientemente informati al riguardo, e decidiamo di mettere una etichetta che consente di scegliere rapidamente. Il pregiudizio è un “riduttore di complessità”, è una sorta di “comfort zone”, e quindi vi si ricorre ogni volta che ci si trova a confrontarsi con situazioni complesse, ansiogene. Se dovessimo far caso a quante volte utilizziamo pregiudizi nel vivere di ogni giorno, probabilmente ne saremmo sorpresi. La cosiddetta saggezza popolare, appresa in tenera età, e per tramite di figure di riferimento (genitori, altri parenti) e basata su declinazione di proverbi (rosso di sera, buon tempo si spera, chi la dura la vince, il mattino ha l’oro in bocca…) o sulle superstizioni, legate al fascino del pensiero magico ( sono del segno zodiacale del cammello. Tu della iena, quindi…. Mille e non più mille, le profezie di Nostradamus, mai aprire un ombrello in casa…) sono fonti pressocchè inesauribili, e buone quasi in tutte le situazioni, di strumenti che inquinano il giudizio e la valutazione. Se facciamo caso a pregiudizi tuttora in essere, come quello sulla razza, ci possiamo rendere conto fin dove può giungere il danno prodotto. A. Einstein , sbarcando profugo negli USA all’agente che gli domandava nome, cognome, provenienza e razza, rispose “Albert Einstein, Europa, umana”.Ma i pregiudizi sulla razza fecero milioni di morti nel secolo scorso, per secoli furono all’origine della schiavitù.Scendendo a dimensioni meno insostenibili, e mantenendo un atteggiamento di tolleranza relativa, che si può fare per ridurre il numero di pregiudizi che tutti più o meno ospitiamo? In attesa di commenti, cordialmente

Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce (Blaise Pascal, pensieri)

Come indubbiamente ricorderà chi mi legge, e ha avuto modo di incontrarmi, la musica popolare brasiliana è una mia passione da quando (avevo 15 anni), in una trasmissione Rai (bianco e nero, intorno alla fine degli anni ’50) apparve un certo Joào Gilberto, quello che inventò la bossanova….ed io fui folgorato sulla via di Bahia.

Stamattina mi è tornata in mente una canzone cantata dal suddetto ( Aos pes da cruz), in cui inopinatamente compare la frase ” o coraçào tem razoes que a propria razào disconheçe”, cioè il titolo di questo articolo ( ma molto più suggestivo e melodico di quanto almeno a me appaia la traduzione italiana, o anche l’originale francese).

Appunto, pensavo ad una esperienza ed un incontro recente con una persona che si è innamorata, di nuovo, ma non si tratta di una persona giovane e quindi “innocente e magari poco esperta nelle cose d’amore”, bensì di una persona d’età ed esperienza.

E di chi? di un’altra, anch’essa di età ed esperienza, ma di radici e tradizioni culturali ed esperienze amorose vissute con stili e manifestazioni e simboli totalmente diversi, non convergenti, anzi, quasi considerate estranee alle proprie.

Ma, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce, e si è innamorata lo stesso.

L‘innamoramento parte, secondo me, da esigenze prevalentemente narcisistiche: in altre parole, ci innamoriamo non dell’altra persona, ma della descrizione che l’altra persona fa di noi;  la narrazione che l’altro ci fa di noi ci trascina, colpisce, entusiasma, commuove, per cui non riusciamo a farne a meno, e sentiamo l’esigenza di rivedere quella persona, di starle vicino e di continuare a farci raccontare di quel “me stesso” in quel modo, con quelle parole, quei gesti, quei toni.

Cosa c’entra questo con la ragione? Intendo, con la logica, con l’esperienza di vita, con la storia che abbiamo? A volte tanto, a volte poco o niente; sta di fatto che le ragioni del cuore, spesso ignorate, premono.

Diventano necessità che emergono quando incontriamo un partner che “ci narra di noi in un certo modo”.  Ne abbiamo paura, spesso, ma la necessità ci porta ad andare oltre, e perciò accettiamo il rischio di soffrire ed essere delusi.

Chiudo citando i versi di una canzone più recente (O amor quando acontece – l’amore quando succede- di Joào Bosco) che come capita nelle canzoni o nelle poesie, riesce a sintetizzare l’esperienza:

“O amor mi pegou, p’ra valer…  passa o tempo, a marè, vendaval sobre o mar azul… quantas vezes chorei, quase desesperei, e jurei nunca mais seus carinhos…O amor quando acontece, a gente esquece logo  que sofreu um dia, ilusào…mas quem mandou chegar taò perto se era sempre um outro ingano…” (L’amore mi ha preso per davvero…passa il tempo, la marea, è una tempesta sull’azzurro mare…quante volte ho pianto, mi son quasi disperato, ho giurato mai più le sue carezze…Quando l’amore ti prende ti dimentichi in fretta di quello che hai sofferto, illusione…chi te l’ha fatto fare ad avvicinarti così,sapevi che sarebbe stato un altro inganno…)